Il tema del divario Nord-Sud in termini macroeconomici è sempre all’ordine del giorno, e le recentissime notizie sullo stato dell’economia nazionale non fanno che confermare le preoccupazioni di chi vede, una volta terminate le risorse del PNRR, un ulteriore aggravarsi di questo storico squilibrio.
Questioni analoghe riguardano le prospettive di sviluppo del Sud nel settore culturale, dove il Meridione d’Italia ha dalla sua un patrimonio invidiabile fatto di beni artistici, architettonici, eredità di una storia millenaria. Discorso simile si può fare per i cosiddetti beni immateriali, costituiti dalle arti dello spettacolo (prosa, musica, danza), dove il Sud, e in particolare Napoli, vanta una grandissima tradizione.
Eppure, in questo settore, l’investimento dello Stato, numeri alla mano, attraverso il FNSV (Fondo Nazionale dello Spettacolo dal Vivo, ex FUS), privilegia largamente gli enti che operano nelle regioni del Centro-Nord, con l’aggravante che la gran parte dei contributi privati raggiunge le medesime regioni attraverso il dispositivo dell’Art-bonus, creando un ulteriore gap.
Basti pensare che, secondo il rapporto AIAM 2023, nel settore concertistico, che finanzia ben 272 enti musicali, il 67,04% delle risorse del FNSV va al Centro-Nord, mentre solo il 32,92% al Sud e alle Isole. Nel settore dei festival musicali, che comprende 148 soggetti assegnatari, il 71,29% delle risorse è allocato al Centro-Nord e solo il 28,71% al Sud e Isole.
Qui si aprirebbe un enorme discorso sull’assenza – salvo poche e virtuose eccezioni – di impegno culturale dell’imprenditoria del Sud, molto timida nel comprendere il valore di ritorno di immagine che un investimento economico nel sostegno alle attività di spettacolo dal vivo potrebbe avere anche per le stesse attività aziendali, vista la grande visibilità che il “brand” del turismo meridionale – e a Napoli in particolare – ottiene in tutto il mondo.
Le attività di spettacolo prodotte al Sud – specialmente quelle legate alla ricerca, sperimentazione, repertori meno commerciali – sono permanentemente a “rischio culturale”, eppure rappresentano un tassello indispensabile della filiera formazione–mondo del lavoro, sbocco naturale per i giovani che si formano nei Conservatori, nelle Accademie di Belle Arti, nelle scuole di danza e di teatro.
Le arti performative sono oggi uno degli strumenti consueti di valorizzazione dei beni culturali materiali, come dimostrano i numerosi festival e rassegne che ormai si svolgono stabilmente in musei, chiese, luoghi d’arte, iniziative spesso capillari, costanti nel tempo, tenaci nel proporre contenuti di qualità, non effimeri, non evanescenti come spesso accade con il cosiddetto “grande evento”.
Come conciliare, in ambito di politiche culturali e spettacolo dal vivo, le diverse esigenze dei soggetti coinvolti? Da un lato, la presenza di politiche di consenso mediatico, protesa verso l’organizzazione di grandi kermesse; dall’altro, le compagnie, orchestre, ensemble, associazioni, perennemente alle prese con le grandi carenze infrastrutturali del Meridione (a Napoli, ad esempio, non vi è più un auditorium per la musica, né uno spazio multidisciplinare moderno). E infine il cittadino, destinatario ultimo del processo, che ha diritto – come recita la Costituzione all’art. 9 – alla tutela “del patrimonio storico e artistico della Nazione” e, attraverso questa tutela, come afferma l’art. 3, alla possibilità del “pieno sviluppo della persona”.
Come auspicato da tempo, il nuovo Codice dello Spettacolo, di cui si attende l’emanazione, dovrebbe prevedere un concreto impegno dello Stato per il riequilibrio territoriale delle risorse del FNSV.
Anche un paritario accesso alle arti performative è una questione che riguarda lo sviluppo della democrazia e l’attuazione della Costituzione, in tutta la sua effettiva potenzialità.
Tommaso Rossi
Presidente dell’Associazione Dissonanzen
Direttore artistico dell’Associazione Alessandro Scarlatti